Cop30, il clima come bene comune

Nel solco di Papa Francesco

di Oliviero Casale e Gerardo Solimine

Tra il 10 e il 21 novembre 2025 i rappresentanti di quasi tutti i Paesi del mondo si riuniscono a Belém, in Brasile, per la Cop30, la trentesima conferenza delle Nazioni Unite sul cambiamento climatico. Prima ancora delle sessioni ufficiali, tra il 3 e il 9 novembre, si svolgono gli incontri preparatori in cui i delegati affinano le posizioni dei diversi gruppi negoziali: grandi economie industrializzate, Paesi meno sviluppati, piccole isole minacciate dall’innalzamento del mare, Stati africani, Paesi emergenti. Nel linguaggio dei documenti si parla di “Parti della Convenzione”, di “organi sussidiari”, di “sessioni congiunte”, ma al cuore del processo resta una domanda semplice: che cosa vogliamo fare, insieme, di questo pianeta che condividiamo?

Belém non è un luogo qualsiasi. È una porta sull’Amazzonia, uno dei cuori verdi della Terra, dove la crisi climatica e la questione del bene comune diventano immediatamente visibili: deforestazione, incendi, conflitti per la terra; ma anche resistenza di comunità indigene, progetti di conservazione, scelte politiche che possono cambiare la traiettoria di interi ecosistemi. Difendere quella foresta non è un gesto estetico o sentimentale: significa difendere un pezzo essenziale dell’equilibrio climatico globale, qualcosa che appartiene a tutti, anche a chi non metterà mai piede in Amazzonia.

Papa Francesco, all’inizio dell’enciclica Laudato si’, ricorda che la Terra è “casa comune” e insieme “sorella” e “madre”: ci sostiene, ci governa, ci nutre, ma “protesta per il male che le provochiamo” quando la trattiamo come oggetto da saccheggiare e non come dono da custodire.

È un modo profondamente concreto di dire che il clima, l’aria, l’acqua, il suolo non sono proprietà di qualcuno, ma beni comuni affidati alla responsabilità di tutti.

Cop30 arriva precisamente a questo incrocio: tra una crisi ormai evidente e la possibilità di riconoscere – o tradire – il carattere comune del bene climatico.


Dopo il Global Stocktake: la verità dei dati e la responsabilità condivisa

Cop30 si colloca cronologicamente dopo il primo Global Stocktake, la grande “radiografia” collettiva dello stato dell’azione climatica globale prevista dall’Accordo di Parigi. Il bilancio, adottato nel 2023, è stato chiaro: con gli impegni attuali il mondo non è in traiettoria per limitare l’aumento della temperatura globale a 1,5 °C. Lo confermano anche i dati raccolti dall’OCSE nel Climate Action Monitor 2025, che parla di emissioni globali ancora in crescita fino al 2023 e di politiche insufficienti a colmare i gap di mitigazione.

Non si tratta solo di una curva che sale su un grafico: dietro quei numeri ci sono ondate di calore, incendi, siccità, alluvioni, perdita di raccolti, migrazioni forzate. È ciò che Laudato si’ chiama “una sola e complessa crisi socio-ambientale”: la degradazione dell’ambiente naturale e quella dell’ambiente umano procedono insieme, e “non ci sono due crisi separate, una ambientale e un’altra sociale”.

È qui che l’idea di bene comune diventa decisiva. Se il clima è una condizione di base per la vita dignitosa di miliardi di persone, proteggerlo o distruggerlo non è mai un fatto solo tecnico: è una scelta morale e politica che riguarda il modo in cui concepiamo la giustizia, la solidarietà, la fraternità.

Cop30 è l’anno in cui i Paesi devono presentare una nuova generazione di piani climatici nazionali, i cosiddetti NDC (Nationally Determined Contributions), con un orizzonte al 2035 e un livello di ambizione superiore ai precedenti.

In teoria questi piani dovevano essere comunicati entro l’inizio del 2025; in pratica, a pochi mesi dall’apertura della conferenza molti governi erano ancora in ritardo, come rileva anche lo studio del Parlamento europeo dedicato a Cop30.

Per questo, a Belém non si discute solo di nuove promesse: si misura il divario tra impegni annunciati e azioni reali. È una sorta di esame di coscienza collettivo, in cui ogni Stato deve rispondere – almeno politicamente – a una domanda precisa: quanto siamo disposti a cambiare, davvero, per difendere un bene che non appartiene solo a noi?


Finanza climatica: numeri, giustizia e destino condiviso

Uno dei punti più sensibili dei negoziati riguarda la finanza climatica. Per anni il dibattito si è concentrato sull’obiettivo, mai pienamente raggiunto, dei 100 miliardi di dollari l’anno da mobilitare a favore dei Paesi in via di sviluppo. Oggi è evidente che quella cifra è largamente insufficiente: i bisogni per adattamento, mitigazione, perdite e danni si misurano in migliaia di miliardi.

A partire da COP28 e COP29, il processo negoziale ha portato all’adozione di un nuovo obiettivo collettivo di finanza climatica, con l’idea di arrivare progressivamente a mobilitare fino a 1,3 trilioni di dollari l’anno entro il 2035, con almeno 300 miliardi di fondi pubblici a favore dei Paesi più vulnerabili. Cop30 è il momento in cui questo percorso – la cosiddetta “Baku to Belém Roadmap” – deve cominciare a tradursi in meccanismi concreti, strumenti operativi, criteri di trasparenza.

Qui il linguaggio della finanza incontra quello della dottrina sociale della Chiesa. Laudato si’ ricorda che la politica non deve sottomettersi all’economia, e l’economia non deve sottomettersi alla tecnocrazia, ma deve porsi “al servizio della vita, specialmente della vita umana”, pensando al bene comune e ai più deboli.

Se le risorse vengono mobilitate solo per difendere i patrimoni di pochi, lasciando esposti milioni di persone alla fame, alle alluvioni, alla perdita di territorio, la finanza climatica tradisce il suo scopo. Se invece viene orientata a rafforzare le capacità dei Paesi vulnerabili, a sostenere l’adattamento, a compensare perdite e danni subiti da comunità che hanno contribuito pochissimo alle emissioni storiche, allora diventa uno strumento concreto di giustizia e bene comune.


Mitigazione, adattamento, perdite e danni: tre facce della cura della casa comune

Nei testi negoziali si parla spesso di tre pilastri: mitigazione, adattamento, perdite e danni (Loss & Damage). Dietro queste parole tecniche si nasconde un modo di guardare alla Terra come casa comune.

  • Mitigazione: significa frenare il riscaldamento riducendo drasticamente le emissioni di gas serra e aumentando la capacità degli ecosistemi di assorbirli. È il capitolo che parla di transizione energetica, rinnovabili, efficienza, uscita graduale dai combustibili fossili. Senza mitigazione, la casa comune si scalda fino a diventare inabitabile per molti.
  • Adattamento: riconosce che il clima è già cambiato e continuerà a farlo, anche nello scenario migliore. Si tratta allora di rendere le comunità più resilienti: costruire città più ombreggiate e ventilate, rafforzare le difese costiere, adattare l’agricoltura, proteggere le risorse idriche, sviluppare sistemi sanitari capaci di reggere alle ondate di calore e alle nuove malattie. A Cop30 si lavora alla concretizzazione dell’Obiettivo Globale sull’Adattamento (Global Goal on Adaptation), con indicatori che permettano di capire se il mondo sta davvero proteggendo le popolazioni più esposte.
  • Perdite e danni: riguarda ciò che non si è riusciti – o voluti – evitare, pur sapendo. Case spazzate via da un ciclone, territori resi improduttivi dalla salinizzazione, isole minacciate dall’innalzamento del mare: qui la domanda è dura e diretta, chi paga quando il bene comune climatico è stato compromesso, provocando danni irreversibili a intere comunità?

La costituzione di un Fondo per perdite e danni è stata una delle decisioni più significative delle ultime COP; a Belém il tema torna con forza, perché non basta creare un fondo: bisogna finanziarlo adeguatamente, renderlo accessibile, definirne criteri di giustizia.

Laudato si’ invita a “ascoltare tanto il grido della terra quanto il grido dei poveri” e ricorda che le conseguenze più pesanti del degrado ambientale cadono sui più deboli. Il pilastro delle perdite e danni è, in fondo, il tentativo di dare una risposta – ancora insufficiente, ma necessaria – a quel grido.


Article 6 e mercati del carbonio: tra integrità e speculazione

Un altro cantiere aperto a Cop30 è quello dell’Articolo 6 dell’Accordo di Parigi, che regola la cooperazione internazionale e i meccanismi di mercato per la riduzione delle emissioni. L’idea è che un Paese possa finanziare azioni di mitigazione in un altro Paese (ad esempio un progetto di riforestazione o di energia rinnovabile) e, in certi casi, conteggiare una parte di quei risultati nei propri obiettivi.

Sulla carta, questi strumenti potrebbero facilitare progetti utili al bene comune: protezione delle foreste, transizione energetica nei Paesi con meno risorse, innovazione tecnologica. Ma il rischio è alto:

  • doppio conteggio delle stesse riduzioni;
  • progetti che violano i diritti delle comunità locali;
  • crediti di scarsa qualità che offrono solo un’illusione di “compensazione”;
  • mercati opachi che trasformano il clima in un puro strumento di speculazione.

Per questo, molti attori della società civile chiedono regole severe: integrità ambientale, trasparenza, partecipazione delle comunità, rispetto dei diritti umani. Solo così i meccanismi dell’Articolo 6 possono contribuire alla tutela della casa comune invece di diventarne una nuova forma di sfruttamento.

La dottrina sociale della Chiesa ricorda che il mercato, da solo, non garantisce il bene comune e che “la politica non deve sottomettersi all’economia”. Applicato all’Articolo 6, questo significa che i mercati del carbonio hanno senso solo se incastonati dentro una cornice etica chiara, che riconosca il primato della dignità delle persone e della tutela degli ecosistemi sulle logiche di profitto di breve periodo.


“Casa comune” e “famiglia umana”: la visione di Laudato si’ e Fratelli tutti

Quello che in sede ONU viene chiamato “bene comune globale” trova una forte risonanza nel magistero recente della Chiesa.

Laudato si’ parla della Terra come “casa comune” e denuncia “l’uso irresponsabile e l’abuso dei beni che Dio ha posto in lei”, ricordando che “più di cinquant’anni fa” Paolo VI aveva già avvertito del rischio di una “catastrofe ecologica” provocata dallo sfruttamento sconsiderato della natura.

La crisi ecologica è letta come “grido della terra e grido dei poveri” e come frutto di un’idea distorta di dominio, che dimentica che l’essere umano è parte della natura e non suo padrone assoluto.

Le Schede di lettura della Laudato si’ sintetizzano così: “non ci sono due crisi separate, una ambientale e un’altra sociale, bensì una sola e complessa crisi socio-ambientale”. Da qui l’idea di “ecologia integrale”: prendersi cura della natura significa anche combattere la povertà, restituire dignità agli esclusi, costruire relazioni sociali giuste.

La fraternità universale descritta da Papa Francesco in Fratelli tutti è il volto umano di questa visione ecologica: “Fratelli tutti, sorelle tutte” non è solo un saluto, ma l’annuncio che siamo “sulla stessa barca”, chiamati a costruire un mondo in cui il “si salvi chi può” non si trasformi nel “tutti contro tutti”.

Cardinale Zuppi, commentando l’enciclica, sottolinea che se non recuperiamo “la passione condivisa per una comunità di appartenenza e di solidarietà, alla quale destinare tempo, impegno e beni”, l’illusione di sicurezza crollerà e lascerà spazio alla polarizzazione e ai conflitti.

È un modo diverso di dire ciò che i negoziati sul clima mostrano ogni anno: o il bene comune lo costruiamo insieme, o non lo avremo affatto.


Europa, responsabilità e solidarietà: un laboratorio di bene comune

Nel discorso ai Capi di Stato e di governo dell’Unione Europea per il 60° dei Trattati di Roma, Papa Francesco ha ricordato che all’origine del progetto europeo non c’è solo il calcolo degli interessi economici, ma “una particolare concezione della vita a misura d’uomo, fraterna e giusta”.

Il cuore del progetto, diceva, è la persona, con la sua dignità trascendente, e il primo elemento della vitalità europea è la solidarietà, intesa come volontà di mettere l’unità e il bene comune al di sopra dei soli interessi nazionali. Quando questo spirito viene meno, riemergono muri, diffidenze, conflitti.

Applicato al tema del clima, questo messaggio è chiarissimo: l’Europa può essere laboratorio di bene comune climatico solo se tiene insieme sviluppo, giustizia sociale ed equilibrio ecologico, evitando di ridurre le politiche ambientali a oneri tecnici o a strumenti di competizione interna.

Laudato si’ invita a pensare la politica e l’economia “in dialogo, al servizio della vita” e non piegate a una logica di profitto che genera “precarietà e insicurezza” e alimenta la cultura dello scarto. Cop30, nel contesto globale, chiede all’Europa e agli altri attori storicamente più responsabili delle emissioni di assumere fino in fondo questo ruolo: non solo leader tecnologici, ma costruttori di giustizia climatica.


Educazione, partecipazione, cittadinanza ecologica

Le COP non sono fatte solo di capi di Stato. Intorno e dentro la Cop30 si muovono delegazioni di giovani, associazioni, comunità indigene, città, università, movimenti di base. Una parte di questo fermento è collegata a un pilastro poco conosciuto ma fondamentale: ACE – Action for Climate Empowerment.

ACE comprende educazione, formazione, accesso all’informazione, partecipazione pubblica, collaborazione internazionale. È l’idea che senza cittadini informati e coinvolti la migliore delle strategie climatiche resta lettera morta.

La guida dell’UNESCO “Let’s talk about COP30” traduce questo in percorsi per le scuole: invita studenti e studentesse a comprendere che cos’è una Conferenza delle Parti, a collegare le decisioni di Belém con le esperienze quotidiane, a immaginare messaggi da inviare ai negoziatori.

Anche Laudato si’ insiste sulla educazione alla “cittadinanza ecologica”, che non si limita a informare ma propone stili di vita nuovi, capaci di “esercitare una sana pressione” su chi detiene il potere politico ed economico. Si parla di piccoli gesti – ridurre sprechi, differenziare i rifiuti, usare meno plastica, risparmiare acqua, preferire il trasporto pubblico, piantare alberi – come parte di una conversione ecologica più profonda, personale e comunitaria.

La logica è la stessa che anima Cop30: tutto è collegato, e la casa comune si custodisce con decisioni globali e scelte quotidiane, con trattati internazionali e con abitudini di consumo, con politiche industriali e con relazioni di prossimità.


Giustizia intergenerazionale: il bene comune nel tempo

Quando parliamo di bene comune, spesso pensiamo a qualcosa che condividiamo nello spazio: un parco, una piazza, un fiume, l’aria di una città. Il clima ci costringe ad allargare lo sguardo: il bene comune climatico è anche quello che condividiamo nel tempo, con le generazioni che verranno.

Laudato si’ parla apertamente di “debito ecologico” lasciato ai bambini e ai giovani, e chiede: “Che tipo di mondo vogliamo lasciare a coloro che verranno dopo di noi, ai bambini che stanno crescendo?”.

È una domanda che Cop30 rende politicamente concreta: gli obiettivi al 2035 e al 2050 non sono numeri astratti, ma descrizioni implicite del mondo in cui vivranno i nostri figli e nipoti.

Nel suo magistero, Papa Francesco ha più volte insistito sul fatto che il clima – come la pace – è un terreno dove si misura la nostra fedeltà alla responsabilità verso le generazioni future: nessuno ha il diritto di ipotecare il futuro degli altri per preservare intatti i propri privilegi presenti.

Quando a Belém si discute se alzare o abbassare un obiettivo, se accelerare o rallentare l’uscita dai combustibili fossili, se finanziare o no gli adattamenti nei Paesi vulnerabili, è come se, invisibilmente, nella sala fossero presenti anche i bambini che oggi non votano, non negoziano, non siedono ai tavoli, ma che erediteranno le conseguenze di quelle decisioni.


Oltre il fatalismo e l’illusione: la via esigente del bene comune

Di fronte alla crisi climatica è facile rifugiarsi in due atteggiamenti opposti ma ugualmente paralizzanti:

  • il fatalismo (“è troppo tardi, non c’è più niente da fare”);
  • l’illusione tecnologica (“qualche soluzione miracolosa ci salverà all’ultimo minuto”).

Laudato si’ mette in guardia da entrambi: da una parte invita a riconoscere “la grandezza, l’urgenza e la bellezza della sfida” che ci sta davanti, dall’altra critica la “fiducia cieca nelle soluzioni tecniche” che sposta sempre più in là le decisioni difficili.

Il bene comune chiede una terza via, più esigente: prendere sul serio sia i limiti del pianeta sia le potenzialità della cooperazione umana, sapendo che ogni decimo di grado di riscaldamento evitato, ogni ecosistema protetto, ogni comunità resa più resiliente fanno una differenza concreta in termini di vite, lavoro, salute.

Cop30 non è il luogo dei miracoli, né l’ultima occasione in assoluto. Ma è uno di quei momenti in cui l’umanità può scegliere se rallentare la corsa verso scenari catastrofici o rimanere ferma a guardare. È uno specchio delle nostre priorità, delle nostre paure, ma anche delle nostre speranze.


Un invito a riconoscere e custodire il bene comune

Guardata con gli occhi del bene comune, Cop30 non è solo una conferenza di capi di Stato, ma un passaggio di responsabilità tra generazioni, tra popoli, tra credenti e non credenti.

La domanda che la attraversa – anche quando non viene esplicitata – è semplice e radicale: siamo disposti a trattare il clima, l’ambiente, la Terra come beni condivisi, da custodire con cura e giustizia, o continueremo a viverli come un magazzino da svuotare finché ce n’è?

Papa Francesco scrive che “la sfida urgente di proteggere la nostra casa comune comprende la preoccupazione di unire tutta la famiglia umana nella ricerca di uno sviluppo sostenibile e integrale”, e invita a una “nuova solidarietà universale”.

Cardinale Zuppi, rileggendo Fratelli tutti, parla di una “alleanza inclusiva” che sostituisca la logica delle contrapposizioni e dei muri con quella dei ponti e dell’incontro.

Cop30 è uno dei luoghi in cui questa alleanza può cominciare a prendere forma, pur tra limiti, fragilità, compromessi imperfetti. Ma perché questo avvenga non basta il lavoro dei tecnici e dei negoziatori: serve una coscienza diffusa del clima e dell’ambiente come bene comune.

Significa:

  • riconoscere che la casa comune è ferita, ma non irreparabilmente;
  • capire che la giustizia climatica è parte integrante della giustizia sociale;
  • sostenere politiche coraggiose, anche quando chiedono cambiamenti nei nostri stili di vita;
  • educare le nuove generazioni a sentirsi parte di una “famiglia universale”, in cui “tutto è collegato”.

In questo senso, nessuno può davvero girarsi dall’altra parte. Non possiamo controllare da soli l’esito di una conferenza mondiale, ma possiamo scegliere da che parte stare: dalla parte dell’indifferenza o da quella della cura; dalla parte dell’egoismo miope o da quella del bene comune; dalla parte di chi considera il clima un problema per esperti o da quella di chi lo riconosce come il respiro stesso della nostra vita condivisa.


Bibliografia essenziale

  • UNFCCC, COP 30 Overview Schedule 2025
  • European Parliament, The COP30 Climate Change Conference (ECTI_STU(2025)778579_EN)
  • OECD, The Climate Action Monitor 2025
  • UNESCO, Let’s talk about COP30 – Teacher’s Guide
  • Papa Francesco, Laudato si’ – Sulla cura della casa comune
  • Caritas/Migrantes, Schede per la lettura e la riflessione sulla Laudato si’
  • Card. Matteo Maria Zuppi, Discorso per l’inaugurazione del 462° Anno Accademico – “I pilastri per una convivenza pacifica alla luce di Fratelli tutti”
  • Card. Matteo Maria Zuppi, Introduzione al Consiglio Permanente della CEI (27 maggio 2025)
  • Papa Francesco, Discorso ai Capi di Stato e di governo dell’Unione Europea per il 60° dei Trattati di Roma (24 marzo 2017)